Il caso riaccende il dibattito su sicurezza, responsabilità e numeri degli incidenti venatori.
Un rumore nella boscaglia, un lampo, il sussurro: «Guarda che bel cinghiale». Poi lo sparo. Nei boschi piemontesi, dove all’alba la stagione venatoria promette pazienza e gesti misurati, una frazione di secondo può cambiare tutto.
È la scena che molti cacciatori conoscono, tra appostamenti e radio, dove l’adrenalina dovrebbe inchinarsi a protocolli di sicurezza inviolabili. Ma non sempre accade. E allora affiorano domande: le regole bastano? L’occhio riconosce davvero il bersaglio? Che cosa dicono i numeri sugli incidenti e quanto spazio resta per una riflessione sobria su armi, responsabilità e gestione dei cinghiali?
È successo nel Cuneese, in località Bordino, durante una battuta domenicale. L’agricoltore Daniele Barolo, 46 anni, padre di due figlie, è morto colpito al petto da una fucilata sparata da un compagno che aveva scambiato un movimento per un cinghiale. Quando 118 e Carabinieri sono arrivati non c’era più nulla da fare: arma sequestrata e rilievi in corso; la salma è stata trasferita al cimitero di Carrù.
Nello stesso giorno, nel Napoletano, un 39enne di Vico Equense è arrivato al San Leonardo con ferite al volto causate da pallini: dieci giorni di prognosi. Il doppio episodio ha riacceso polemiche: per Michela Vittoria Brambilla, presidente della Lega italiana per la Difesa degli Animali e dell’Ambiente, la caccia è una “pratica crudele e pericolosa” da abolire.
Nella stagione venatoria 2024-2025 (1 settembre–30 gennaio) sono stati registrati 62 incidenti, 14 mortali. Su base annua le stime prudenti vanno da 8 a 14 decessi; su un orizzonte più lungo, la media ragionevole oscilla tra 10 e 12 morti l’anno direttamente collegati alla caccia. Numeri non marginali, considerando che molte uscite avvengono vicino a sentieri e terreni agricoli.
Nel caso di Cuneo gli inquirenti verificheranno il rispetto di regole basilari: riconoscimento certo del bersaglio, controllo del campo di tiro e della linea di sicurezza, posizionamento dei compagni, pettorine ad alta visibilità, comunicazioni chiare. La braccata al cinghiale è tra i contesti più critici: vegetazione fitta, traiettorie imprevedibili, cani in spinta, sagome che si sovrappongono. Qui la cultura della prevenzione, più delle sanzioni, fa la differenza.
Il tema è anche gestionale. L’espansione dei cinghiali verso aree periurbane alimenta richieste di controllo; ma le sole carabine non bastano senza pianificazione, recinzioni, controllo qualificato, formazione obbligatoria e tracciabilità degli incidenti. Molti territori chiedono mappe dei rischi, fasce di rispetto nei weekend e calendari dinamici legati a meteo e afflussi.
Intanto, comunità come quella di Rocca de’ Baldi fanno i conti con una perdita insensata. A ogni stagione, l’eco di uno sparo ricorda che l’errore umano non è un dettaglio statistico, ma una responsabilità collettiva: ciò che separa una giornata di caccia da una tragedia è spesso la somma di piccole cautele rispettate senza eccezioni. Per tutti, oggi più che mai.
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