Il mondo del tennis è rimasto di colpo ammutolito, i tifosi increduli e i social in subbuglio: una rivelazione inattesa su Roger Federer ha risuonato come un tuono sopra i prati di Wimbledon.
Oggi affrontiamo alcuni discorsi legati a Federer, ma non parliamo di statistiche, record o nostalgie, ma di un dettaglio psicologico e di rivalità che riapre un capitolo centrale dell’ultimo quindicennio.
Federer, svizzero di Basilea classe 1981, è considerato uno dei più grandi tennisti di tutti i tempi. Venti titoli del Grande Slam, di cui otto a Wimbledon, 310 settimane complessive in vetta al ranking ATP (con una striscia record di 237 consecutive), una carriera che ha ridefinito estetica e sostanza dello sport: servizio fluido, dritto penetrante, rovescio elegante, mano sensibilissima a rete e un’intelligenza tattica fuori dal comune.
Il suo tennis ha ispirato un’intera generazione di appassionati e professionisti. Iconico anche per il fair play e la compostezza, ha incarnato per molti il modello ideale del campione globale, capace di unire epoche e pubblici differenti. Ritiratosi nel 2022 alla Laver Cup, rimane una presenza magnetica, capace di far discutere e appassionare anche a racchetta appesa al chiodo.
Ci soffermiamo sul rapporto tra Federer, l’idolo per antonomasia dell’erba londinese, e Novak Djokovic, il campione che proprio sotto il Centre Court ha costruito alcune delle sue vittorie più pesanti.
In questo quadro, Wimbledon è sempre stato il suo regno. Il torneo londinese, il più antico e prestigioso del mondo, ha adottato Federer come pochi altri fuoriclasse nella storia. Gli applausi del Centre Court, i sussulti del Campo 1, i cori che ne accompagnavano le volée: tutto ha contribuito a cementare una relazione speciale tra pubblico e campione. E proprio qui entra in gioco la rivelazione che sta facendo parlare: non solo l’ovazione per lo svizzero e il rispetto per un’icona, ma il riflesso che quell’affetto ha avuto sul suo grande rivale, Novak Djokovic, nelle sfide più incandescenti.
La scintilla è partita da un ex numero uno del mondo che conosce Djokovic come pochi, avendolo seguito da vicino anche in panchina: l’osservazione, netta e senza giri di parole, è che Federer rappresentasse il “nemico giurato” di Nole sull’erba di Church Road. Non per animosità personale, ma per una combinazione micidiale di fattori: la straordinaria efficacia dello svizzero sul verde e l’amore quasi incondizionato che il pubblico inglese gli ha tributato per anni. Il punto, spiegato al campione serbo, era di non fraintendere il calore degli spalti: non si trattava di ostilità per lui, quanto di una spinta affettiva verso il loro beniamino. Il consiglio era chiaro: non prenderla sul personale, accettare quella dinamica e lavorare per farsi apprezzare anche da chi sembrava già schierato.
Contestualizzando, la lettura ha un peso specifico enorme. Djokovic e Federer si sono incrociati a Wimbledon in finali passate alla storia: 2014 e 2015, vinte dal serbo in quattro set, e l’epica del 2019, chiusa solo al tie-break decisivo sul 12-12 del quinto set, una prima assoluta per lo Slam londinese. In tutti quei pomeriggi, l’atmosfera ebbe una costante: il tifo in maggioranza rivolto allo svizzero, con Djokovic costretto a recitare il ruolo dell’antagonista. È in quella fucina psicologica che il serbo ha forgiato una delle sue qualità più ammirate: la capacità di estrarre energie dal contesto anche quando il contesto non lo sostiene, trasformando i fischi in focus e la pressione in lucidità.
Definire Federer l’“avversario giurato” a Wimbledon è un’etichetta che ha fatto sussultare molti tifosi, perché stride con l’immagine di due campioni capaci di rispetto reciproco e sfide stellari. Ma nella semantica della rivalità sportiva, il termine non esprime inimicizia personale, bensì la percezione competitiva al massimo livello: il rivale che, in quel luogo e su quella superficie, incarna l’ostacolo supremo, con il pubblico come forza gravitazionale. E a Wimbledon l’orbita emotiva ha da sempre attratto Federer come un pianeta dominante.
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