Quattro Ristoranti, attimi di panico a tavola durante la cena: “Sta morendo”

Tra Romagna e Bologna, l’orgoglio della pasta ripiena esplode in sala: giudizi severi, definizioni contestate e una battuta fulminea, “Sta morendo”.

Nel piccolo teatro delle verità gastronomiche in prima serata, dove i piatti diventano prova del nove e i sorrisi mascherano spesso colpi ben assestati, un dettaglio può accendere un incendio. È quanto accaduto a Quattro Ristoranti, quando un concorrente romagnolo, sicuro della propria tradizione, ha ordinato i cappelletti convinto di ritrovare casa nel piatto.

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Quattro Ristoranti, attimi di panico a tavola durante la cena: “Sta morendo”, credits TV8, uspms.it

Al momento del servizio, però, lo sguardo si è fatto fisso, le forchette hanno esitato e al tavolo sono echeggiate battute a metà tra scherno e preoccupazione, fino alla folgorazione: “Sta morendo”. Non una persona, ma l’idea stessa di un classico, ferita – dicono i presenti – nell’orgoglio bolognese. Dietro quelle risate nervose e i “non spenderò parole” sussurrati tra un boccone e l’altro, si è aperto un dibattito che va oltre il gioco: cosa rende autentico un formato di pasta ripiena? E quanto contano nomi, gesti, manualità? Chi era in sala ha parlato di “tortello”, qualcuno di “raviolo”, altri, ironicamente, di “pasta riviera”. Sfumature che, a certe latitudini, non sono sfumature ma confini.

Cappelletti: la disputa su nomi e forme: quando la tradizione chiede rispetto

Secondo il racconto emerso in puntata, il concorrente originario della Romagna ordina cappelletti e riceve un formato che non riconosce: lo definisce più vicino a un “tortello” o a un “raviolo” che al cappelletto di casa. Al tavolo si apre così una spiegazione da manuale: il cappelletto, parente del tortellino, ha una farcia a base di formaggio e, a differenza del parente bolognese, non si arrotola intorno al mignolo ma “si pizzica”. Da lì partono battute, frecciate e un netto “noi diciamo no”. Perché a Bologna certe denominazioni non sono flessibili, e l’orgoglio bolognese sente il colpo quando la memoria collettiva non ritrova, nel piatto, ciò che la regola detta.

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Cappelletti: la disputa su nomi e forme: quando la tradizione chiede rispetto, @ale4ristoranti, uspms.it

Il cuore della contesa sta tutto in quei gesti minimi che definiscono un’identità. Nelle cucine di Bologna il tortellino “si arrotola”, nelle case di Romagna il cappelletto “si pizzica”: movimenti di dita, pieghe e chiusure che diventano distintivi quasi araldici. Chiamarli allo stesso modo può sembrare veniale altrove, ma lungo la Via Emilia equivale a confondere lingue e bandiere. Non stupisce, allora, che il concorrente abbia assunto i panni del “Piero Angela della pasta ripiena”, spiegando con pazienza la differenza fra nome, forma e ripieno. La platea, divertita e divisa, ha reagito con sarcasmo e severità.

I ristoratori si giudicano a vicenda su location, servizio, menù e conto, mentre il conduttore Alessandro Borghese governa ritmi e verdetti. In questo quadro, il nome di un piatto diventa cartina tornasole di tradizione e coerenza. Se la forma non corrisponde all’aspettativa, il voto rischia di precipitare. È accaduto qui, con l’appellativo di cappelletti percepito come forzatura; da lì l’ironia della “pasta riviera” e la difesa d’ufficio del territorio. Non è solo scena: per chi lavora ogni giorno al matterello, la parola giusta è parte dell’autenticità.

C’è chi liquida la disputa come pignoleria, e chi la considera presidio di identità. In mezzo, tanti professionisti di cucina ricordano che chiamare cappelletto un tortello o un raviolo non è un peccato veniale, ma un errore tecnico. Forse è questo che ha fatto dire “Sta morendo”: non l’uomo, ma la precisione di Bologna e Romagna in quel preciso istante.

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