Tra Romagna e Bologna, l’orgoglio della pasta ripiena esplode in sala: giudizi severi, definizioni contestate e una battuta fulminea, “Sta morendo”.
Nel piccolo teatro delle verità gastronomiche in prima serata, dove i piatti diventano prova del nove e i sorrisi mascherano spesso colpi ben assestati, un dettaglio può accendere un incendio. È quanto accaduto a Quattro Ristoranti, quando un concorrente romagnolo, sicuro della propria tradizione, ha ordinato i cappelletti convinto di ritrovare casa nel piatto.

Al momento del servizio, però, lo sguardo si è fatto fisso, le forchette hanno esitato e al tavolo sono echeggiate battute a metà tra scherno e preoccupazione, fino alla folgorazione: “Sta morendo”. Non una persona, ma l’idea stessa di un classico, ferita – dicono i presenti – nell’orgoglio bolognese. Dietro quelle risate nervose e i “non spenderò parole” sussurrati tra un boccone e l’altro, si è aperto un dibattito che va oltre il gioco: cosa rende autentico un formato di pasta ripiena? E quanto contano nomi, gesti, manualità? Chi era in sala ha parlato di “tortello”, qualcuno di “raviolo”, altri, ironicamente, di “pasta riviera”. Sfumature che, a certe latitudini, non sono sfumature ma confini.
Cappelletti: la disputa su nomi e forme: quando la tradizione chiede rispetto
Secondo il racconto emerso in puntata, il concorrente originario della Romagna ordina cappelletti e riceve un formato che non riconosce: lo definisce più vicino a un “tortello” o a un “raviolo” che al cappelletto di casa. Al tavolo si apre così una spiegazione da manuale: il cappelletto, parente del tortellino, ha una farcia a base di formaggio e, a differenza del parente bolognese, non si arrotola intorno al mignolo ma “si pizzica”. Da lì partono battute, frecciate e un netto “noi diciamo no”. Perché a Bologna certe denominazioni non sono flessibili, e l’orgoglio bolognese sente il colpo quando la memoria collettiva non ritrova, nel piatto, ciò che la regola detta.

Il cuore della contesa sta tutto in quei gesti minimi che definiscono un’identità. Nelle cucine di Bologna il tortellino “si arrotola”, nelle case di Romagna il cappelletto “si pizzica”: movimenti di dita, pieghe e chiusure che diventano distintivi quasi araldici. Chiamarli allo stesso modo può sembrare veniale altrove, ma lungo la Via Emilia equivale a confondere lingue e bandiere. Non stupisce, allora, che il concorrente abbia assunto i panni del “Piero Angela della pasta ripiena”, spiegando con pazienza la differenza fra nome, forma e ripieno. La platea, divertita e divisa, ha reagito con sarcasmo e severità.
I ristoratori si giudicano a vicenda su location, servizio, menù e conto, mentre il conduttore Alessandro Borghese governa ritmi e verdetti. In questo quadro, il nome di un piatto diventa cartina tornasole di tradizione e coerenza. Se la forma non corrisponde all’aspettativa, il voto rischia di precipitare. È accaduto qui, con l’appellativo di cappelletti percepito come forzatura; da lì l’ironia della “pasta riviera” e la difesa d’ufficio del territorio. Non è solo scena: per chi lavora ogni giorno al matterello, la parola giusta è parte dell’autenticità.
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C’è chi liquida la disputa come pignoleria, e chi la considera presidio di identità. In mezzo, tanti professionisti di cucina ricordano che chiamare cappelletto un tortello o un raviolo non è un peccato veniale, ma un errore tecnico. Forse è questo che ha fatto dire “Sta morendo”: non l’uomo, ma la precisione di Bologna e Romagna in quel preciso istante.