Grazie a un suo amico e collega arriva un retroscena commovente sugli otto giorni prima della morte di Sinisa Mihajlovic. Ecco cosa ha detto.
Ci sono storie che arrivano tardi, ma non per questo suonano meno vere. Basta un dettaglio, una scena breve, per illuminare una persona più di tanti elogi.

Nei giorni scorsi, un amico e collega molto noto ha riaperto una pagina intima legata proprio a Sinisa Mihajlovic. Un ricordo custodito a lungo, svelato con pudore. Non è un racconto di nostalgia, semmai di presenza: di come certe vite restino accese anche quando non possono più essere vissute.
Dario Marcolin e Mihajlovic sono stati compagni alla Lazio negli anni in cui la Serie A era una fucina di caratteri e di campioni. Lì, tra il campo e lo spogliatoio, si costruisce quel legame umano che supera la contingenza di una partita. Chi ha vissuto quel periodo ricorda Sinisa per la precisione del sinistro e per il temperamento, ma anche per la generosità schietta: diretto con tutti, protettivo con chi sentiva “suo”.
Mihajlovic, la parentesi che diventa ponte: il padel
C’è poi una passione che ha unito tante generazioni di calciatori, ex e non: il padel. A Roma come altrove, diventato luogo d’incontro, competizione soft, rito di socialità. Sinisa Mihajlovic lo aveva abbracciato come sfogo e come misura di sé: competizione e sorriso, insieme. Non una moda da rincorrere, ma un modo di stare con gli altri, di “giocarsela” comunque. È in quella dimensione, più che in qualsiasi salone d’onore, che si ritrovano i fili fra amici: palline che rimbalzano, battute che volano, il gusto di misurarsi senza prendersi troppo sul serio.

Il cuore del racconto arriva qui, senza trombe. Dario Marcolin lo ha condiviso ora, a distanza, con la discrezione di chi sa che certi passaggi non si mettono in vetrina. Ha parlato di ciò che accadde otto giorni prima della morte di Sinisa Mihajlovic, quando la malattia stava già chiedendo tutto. Eppure, in quel frangente, l’amico trovò il modo di essere ancora Sinisa: un segno, poche parole, la solita ironia gentile con cui toglieva peso alle cose. Non è il contenuto a contare — non davvero — ma la scelta di far sentire la propria presenza. Come a dire: “Ci sono”. È il tipo di gesto che descrive meglio di qualsiasi tributo pubblico chi fosse, e cosa tenesse davvero vicino al cuore.
Da lì la traiettoria del racconto si allarga: la Lazio come casa comune, il mestiere di allenatore e di opinionista come strumenti per leggere il presente, il padel come lingua franca per restare connessi. Marcolin non indulge: ricuce gli episodi con misura, evitando il sentimentalismo. E proprio in questa asciuttezza c’è l’emozione. Perché quando si tolgono gli orpelli restano i fatti: la tenacia di un uomo, la rete degli affetti, la memoria condivisa.