Ti spettano davvero molti soldi dal datore di lavoro, ora vedremo anche la discriminazione indiretta che va risarcita. Tutto quello che c’è da sapere.
Le regole del lavoro cambiano volto, e con esse cambiano i diritti economici dei lavoratori. La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza n. 119 del 2025, ha ribadito con forza un principio destinato ad avere ricadute molto concrete nelle aziende italiane: è discriminazione illegittima non solo quella esplicita e diretta, ma anche quella indiretta, quando scaturisce da disposizioni, criteri o prassi apparentemente neutrali che producono effetti sfavorevoli su un gruppo protetto (per sesso, etnia, età, religione, orientamento sessuale, disabilità e altri fattori).

Soprattutto, questa discriminazione va risarcita. Tradotto: laddove la regola “neutra” penalizza sistematicamente alcuni dipendenti, il datore di lavoro rischia di dover pagare differenze retributive, arretrati, danni non patrimoniali e di modificare le proprie procedure.
Che cos’è la discriminazione indiretta?
Non si tratta della tipica esclusione esplicita (“non assumiamo donne”): la discriminazione indiretta è più sottile. Nasce quando un requisito o una prassi, formalmente uguale per tutti, colloca un gruppo in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altri, a meno che non sia giustificata da una finalità legittima e perseguita con mezzi necessari e proporzionati.
Esempi concreti: un criterio di avanzamento basato su un titolo di studio che in quella specifica platea è storicamente più diffuso tra gli uomini; turni serali o reperibilità non modulabili che impattano in modo sproporzionato sulle lavoratrici con carichi di cura; parametri di presenza “full time only” che escludono chi, per disabilità o esigenze familiari, ricorre al part-time; un’altezza minima o test fisici standardizzati non strettamente necessari al ruolo; politiche di bonus legate a disponibilità a trasferte non essenziali che penalizzano chi ha limitazioni certificate.


La giurisprudenza della Cassazione e della Corte di giustizia UE allinea il quadro: al lavoratore non è richiesto di provare l’intenzione discriminatoria, ma di offrire elementi fattuali e statistici idonei a far presumere lo svantaggio sproporzionato. Da quel momento scatta l’inversione dell’onere della prova: è il datore che deve dimostrare che la misura contestata persegua uno scopo legittimo, sia indispensabile per l’organizzazione e, soprattutto, proporzionata. Se questa dimostrazione non c’è, scatta l’illegittimità e, con essa, il risarcimento.
Il risarcimento non è simbolico. Nei casi accertati di discriminazione indiretta, i giudici possono ordinare la cessazione della prassi e la sua modifica, riconoscere differenze retributive per avanzamenti o premi negati e gli arretrati, con interessi e rivalutazione, disporre il riconoscimento di anzianità e progressioni di carriera non godute, liquidare il danno non patrimoniale per la lesione della dignità e dell’uguaglianza, con funzione anche dissuasiva, imporre piani correttivi e monitoraggi, con eventuali sanzioni in caso di recidiva.
Nel concreto, ciò può tradursi in migliaia di euro per chi è stato escluso da incrementi retributivi, bonus o scatti di livello a causa di criteri selettivi formalmente neutri ma sostanzialmente distorsivi. I lavoratori interessati possono rivendicare anche la “perdita di chance” di carriera, se dimostrano che la prassi ha ridotto significativamente le possibilità di progresso.