I dati sull’inquinamento sono agghiaccianti ma vale davvero la pena sperare che le auto elettriche siano la soluzione o anche loro contribuiscono a questo scenario?
Nel dibattito pubblico sull’automobile del futuro, poche parole dividono come “inquinamento” e “elettrico”. Da una parte c’è la promessa di città più silenziose, aria più respirabile, emissioni allo scarico pari a zero. Dall’altra, un retropensiero sempre più diffuso: cosa accade prima e dopo il viaggio, cioè nella produzione e a fine vita di un veicolo? La domanda non è banale, perché il clima non fa sconti e le scelte sbagliate rischiano di inchiodarci a decenni di costi ambientali e sociali.

A rendere il quadro ancora più complesso intervengono la composizione della rete elettrica, il mix energetico dei Paesi, la provenienza delle materie prime, le tecnologie di riciclo e persino le abitudini di guida. Per anni il confronto si è giocato su un terreno parziale: dallo scarico contro lo scarico, dove le auto elettriche vincono a mani basse perché non emettono fumi in marcia. Ma chi guarda all’intero ciclo di vita – dall’estrazione dei materiali alla produzione, dall’uso al fine vita – sa che il vero bilancio si compone altrove. Ecco dove.
Le auto elettriche inquinano o no?
Emergono numeri capaci di gelare i facili entusiasmi e, insieme, di spazzare via certe semplificazioni: dati “agghiaccianti” perché mostrano quanto sia complesso leggere la sostenibilità in modo onesto. Una nuova analisi della Duke University, basata su un rigoroso approccio “cradle-to-grave”, riporta il confronto su basi misurabili. Il primo verdetto sorprende chi guarda solo al momento dell’acquisto: nella fase iniziale del loro ciclo di vita, le auto elettriche a batteria (BEV) presentano un’impronta di carbonio più elevata rispetto alle equivalenti a benzina.

Il motivo sta soprattutto nella produzione del pacco batterie agli ioni di litio, processo energivoro che richiede l’estrazione e la lavorazione di litio, cobalto e nickel. Se si fotografa soltanto questa fase, i conti non tornano: nel perimetro dei primi 24 mesi, il profilo emissivo di una BEV può risultare fino al 30% superiore rispetto a quello di un’auto tradizionale. Il paradosso si scioglie non appena si sposta l’attenzione sull’uso: i motori elettrici sono intrinsecamente più efficienti di quelli a combustione e, chilometro dopo chilometro, “recuperano” il debito iniziale.
Dal secondo anno, secondo le stime della Duke, la curva si incrocia: le emissioni cumulative delle BEV scendono sotto quelle delle auto a benzina e l’“effetto vantaggio” cresce progressivamente con l’aumentare del chilometraggio. Questo vantaggio diventa ancor più marcato nei contesti in cui la ricarica attinge a una rete elettrica via via più decarbonizzata. Lo studio non si ferma al presente e simula scenari di adozione fino al 2050. Un risultato chiave riguarda il rapporto tra capacità delle batterie e CO2 evitata: ogni kilowattora aggiuntivo di capacità potrà consentire di evitare mediamente circa 220 kg di CO2 nel 2030 e 127 kg nel 2050.
La traiettoria, controintuitiva a prima vista, riflette l’evoluzione del sistema energetico: man mano che la rete diventa più pulita, l’efficienza climatica dell’insieme migliora e l’“evitato” marginale per singolo kWh si riduce, senza intaccare il vantaggio complessivo del parco BEV rispetto ai veicoli a benzina. Sul piano economico-ambientale, i ricercatori quantificano i danni complessivi generati nell’arco di vita: oggi, quelli associati a un’auto a benzina risultano da due a tre volte e mezzo superiori rispetto a quelli di un’auto elettrica.

È un differenziale che pesa sulle tasche collettive, oltre che sull’atmosfera, e che chiama in causa costi sanitari, climatici e di qualità dell’aria. Ma non basta questo per assolvere l’elettrico da ogni criticità. La filiera delle batterie pone interrogativi seri: l’estrazione delle materie prime e la raffinazione concentrata in pochi Paesi comportano impatti ambientali, consumo idrico, pressioni sui territori e rischi sociali. È qui che si gioca la seconda metà della sfida: elettrificare sì, ma con catene di fornitura più trasparenti e pratiche industriali meno energivore. L’industria, dal canto suo, sostiene di essere già in movimento.
Processi produttivi ottimizzati, fabbriche alimentate da rinnovabili, chimiche meno impattanti e riciclo avanzato promettono di ridurre in modo sensibile l’impronta delle batterie. Il progresso non è teorico: il tasso di recupero dei materiali strategici cresce, mentre si sperimentano usi “second life” per lo stoccaggio stazionario. Ogni punto percentuale di miglioramento su questi fronti accorcia il tempo di pareggio emissivo delle BEV e ne amplifica il vantaggio sul ciclo di vita. Gli autori della ricerca mettono però in guardia dalle certezze granitiche.
Le proiezioni dipendono da variabili che possono accelerare o rallentare i benefici: la durata effettiva dei veicoli, il ritmo di decarbonizzazione della rete, i tassi di riciclo, le tecnologie di ricarica, la dimensione media delle auto e i chilometri annuali percorsi. Un’auto elettrica leggera, ricaricata prevalentemente quando l’energia rinnovabile è abbondante, in un Paese con mix pulito e infrastrutture efficienti, “batte” la benzina prima e di più. Viceversa, BEV molto pesanti usate poco e ricaricate da reti ancora carbon-intensive impiegano più tempo a migliorare il bilancio climatico.
Le implicazioni per le politiche pubbliche sono immediate servono incentivi mirati alla rottamazione dei veicoli più inquinanti e all’acquisto di modelli elettrici efficienti. Urgono standard stringenti per il riciclo delle batterie e per la tracciabilità delle materie prime, occorrono investimenti nelle reti, in accumuli e rinnovabili per rendere più pulita e resiliente la ricarica. E, infine, sono importanti regole di rendicontazione omogenee per le emissioni lungo la filiera, così da evitare greenwashing e confronti distorti.





